Castelnuovo dell’Abate - frazione del comune di Montalcino - è un pittoresco paese della bassa Val d’Orcia la cui popolazione non raggiunge oggi i 300 abitanti. Dalla sommità del poggio su cui è assiso (m. 385) domina la vallecola del torrente Starcia, affluente di destra dell’Orcia, avendo ai suoi piedi l’abbazia di Sant’Antimo, tra gli esempi più pregevoli dell’architettura romanico-monastica della Toscana. La vista, di straordinaria ampiezza, che dal paese si gode verso la Maremma, la Val d’Orcia, l’Amiata e sul paesaggio tipicamente mezzadrile della valle della Starcia ne fa uno dei luoghi più suggestivi del Senese e della Toscana. Dell’insediamento medievale resta, oltre che l’impronta urbanistica complessiva, “una porta molto alterata ˂ la Porta Nova ˃, mentre è in buona parte riconoscibile il circuito delle mura, sulle quali sono state erette le case più esterne”. La parrocchiale, intitolata ai SS. Filippo e Giacomo, è edificio romanico, con facciata ‘a capanna’, ad una sola navata; conserva interessanti affreschi di Ventura Salimbeni. In prossimità della chiesa, notevoli il palazzo del Vescovo (secc. XIV-XV) e il rinascimentale palazzo Bellanti. Il primo, costruito con pietre a vista, presenta elementi decorativi in pietra grigia che scandiscono il perimetro di finestre e porte, dando luogo anche a cornicioni e angolature bugnate.


La vicenda storica di Castelnuovo (Castrum novum Abbatis) ha i suoi inizi nel medioevo tardo, quando se ne ha la fondazione in un sito che può ipotizzarsi abitato già in precedenza (forse da coloni dipendenti dall’abbazia di Sant’Antimo). Il fatto che esso non figuri in un elenco di comunità sottoposte al dominio di Siena stilato nel 1208 per ragioni fiscali (elenco che invece comprende le comunità di Monte Caprile, Laverona e Loreto, destinate nei decenni successivi a cessare di esistere in autonomia per essere inglobate nella curia di Castelnuovo) suggerisce che la sua fondazione sia posteriore a tale data e, comunque, di ambito duecentesco, stante il fatto che il castello è più volte menzionato in documenti di quel secolo. Nel 1265 Castelnuovo viene designato da Siena castello di frontiera del contado. Dei rapporti fra Castelnuovo e Sant’Antimo nel Duecento, secolo che sembra vedere il consolidamento della comunità castellana e la sua affermazione sul territorio circostante, quasi nulla viene rivelato dalle scarse fonti a disposizione, fatto salvo l’interessante spiraglio aperto da un documento del 1298 (18 dicembre), che attesta la donazione effettuata da esponenti del casato senese dei Tolomei al monastero della Val di Starcia di numerosi beni e diritti, fra i quali un terzo della giurisdizione su Castelnuovo e quella sulla Villa a Tolli, raggiungibile - quest’ultima - attraverso i boschi del Poggio d’Arna. Non è dato, peraltro, sapere con certezza chi siano, all’epoca, i detentori dei restanti due terzi della signoria castelnuovese, se i Tolomei medesimi, l’abate o altri ancora.
Affacciandoci sul Trecento, grazie alla preziosa testimonianza della catastazione parcellare senese nota come ‘Tavola delle possessioni’ si ha modo di conoscere tanto l’assetto della proprietà e l’ordinamento colturale propri del territorio castelnuovese quanto i suoi confini che, in un saggio di una ventina d’anni fa (autori Farinelli e Giorgi), vengono così descritti: “ [La corte] comprendeva territori situati a cavallo del fiume Orcia: sulla riva destra erano delimitati a nord dal torrente Ribusuoli e, per un breve tratto, dall’Asso; ad est e a sud dall’Orcia; ad ovest confinavano con la corte di Montalcino nei pressi della Villa a Tolli e con quella di S. Angelo vicino all’odierno fosso di Fonte Lattaia … i terreni sulla riva sinistra erano compresi tra il fiume Orcia (a nord e ad ovest) ed il torrente Ente (ad est), giungendo (a sud) fino alle terre degli odierni poderi Casaccia e Querciole di Dogana”.


La ricchezza delle informazioni di inizio Trecento relative all’organizzazione della proprietà fondiaria e al suo sfruttamento non si accompagna, purtroppo, per Castelnuovo ad un’analoga messe di notizie per quel che riguarda le vicende politiche. Quanto a queste, sono noti soltanto la presenza di un podestà (come massima autorità locale, in seguito sostituito da un vicario) e il rifacimento della cinta muraria intervenuto nel 1360 per iniziativa dei senesi. Si aggiunga come il castrum - secondo la narrazione del Pecci - sia stato occupato, ormai all’esordio del XV secolo, dai fiorentini nel quadro delle operazioni relative alla guerra visconteo-senese e solo due anni dopo (1404) restituito a Siena a seguito della pace siglata fra la città della Balzana e Firenze. Da rilevare anche come si dipani nello stesso periodo una controversia fra gli uomini di Castelnuovo e l’abbazia di Sant’Antimo circa il pagamento di un censo misto in natura (8 moggia e 6 staia di grano) e in denaro (libre 6) fino allora annualmente versato e che i primi non intendevano più riconoscere all’abate; la lite, trascinatasi per anni, si sarebbe conclusa solo nel 1411 con l’affermazione delle posizioni di Sant’Antimo, a dimostrazione di quanto difficile fosse per la comunità castelnuovese conseguire un pieno affrancamento dal potere abbaziale. Nel 1434, Castelnuovo si dà uno statuto, nel quale si passano in rassegna e si disciplinano tutti gli aspetti della vita comunitativa, da quelli istituzionali e amministrativi a quelli economici e sociali. Da tale fonte si apprende, fra l’altro, che la comunità valdorciana è amministrata da una pluralità di magistrature individuali (un vicario, un camerlengo, un sindaco, un “sindaco de’ malefizi” etc.) e collegiali (priori - in numero di tre -, consiglio - composto dai capi famiglia, altrove detto per solito “consiglio generale” -, consiglio dell’aggiunta - di otto membri -, due massari etc.), della durata in carica di sei mesi o un anno e delle quali il testo normativo illustra le competenze e le procedure elettorali (salvo - quest’ultime - per la massima autorità, il vicario, inviato direttamente da Siena). Lo statuto è una fonte preziosa anche perché dà conto delle principali attività produttive della comunità valdorciana. Certo non sorprende constatare come esse risultino essere l’agricoltura e l’allevamento. Nel settore agricolo a dominare è la cerealicoltura, in particolare la frumenticoltura (verosimilmente affiancata, in misura marginale, dalla coltivazione dell’orzo e della spelta). Modesta la diffusione della vigna (che solo in seguito si sarebbe sviluppata), e ancor più quella dell’olivo, che non prima dell’età moderna avrebbe preso a diffondersi significativamente nelle terre poderali del Senese e della Toscana. Bestiame ovino, bovino, cavalli, asini, muli erano di frequente riscontro - come le testimonianze statutarie mostrano chiaramente - e generavano non poche preoccupazioni per la salvaguardia delle colture. Si apprende, infine, che dalla Cava di Porzia (Porzica oggi nell’uso popolare) si estraevano importanti quantità di onice destinate all’esportazione: molto ne fu utilizzato per la costruzione del Duomo di Orvieto come pure per le chiese senesi e di altri luoghi.
Nel 1464, - quando ormai da tempo la Val d’Orcia era investita dalla crisi demografica, non diversamente da altre zone contermini - Castelnuovo contava 49 fuochi fiscali (nuclei familiari). A fini comparativi può tenersi conto che nello stesso anno Castiglione d’Orcia risulta avere 101 fuochi familiari, Contignano 24, Campiglia d’Orcia 36, Montenero, sulle pendici amiatine, 52. Una forte crescita demografica la comunità conosce, tuttavia, nei decenni successivi, tanto che nel 1532 risulta pressoché raddoppiato il numero delle famiglie, pari a 97, escluse le molte residenti nei poderi del territorio; a fine secolo (1594), un ulteriore piccolo incremento (547 ab.), prima che un sensibile calo intervenga a connotare il Seicento (319 ab. nel 1675), proseguendo nel secolo successivo fino ai 285 ab. del 1745. Alla modesta ripresa di fine Settecento ne farà seguito una più marcata ad inizio Ottocento (513 ab. nel 1833). In una fase storica a noi più vicina, quella del secondo dopoguerra, la popolazione castelnovese avrebbe, seppur di poco, travalicato la soglia dei mille residenti, salvo di lì a breve ridimensionarsi fortemente a seguito dell’emigrazione di molti nuclei familiari verso le città prossime (ed anche meno vicine) in cerca di un lavoro sicuro e di migliori condizioni di vita: è il fenomeno dello svuotamento delle aree rurali che si verifica negli anni Cinquanta e Sessanta nelle campagne del Senese e in molte altre terre centro-italiane a seguito dell’abrogazione del contratto di mezzadria e dell’esito non felice di molte lotte contadine.
A cura del Professore
Alfio Cortonesi

Abbazia di Sant'Antimo - a breve distanza da Castelnuovo dell’Abate (non più di 20 minuti a passo tranquillo), in direzione Nord, si erge, nella valle della Starcia, la splendida abbazia di Sant’Antimo, principale emergenza architettonica del territorio di Castelnuovo dell’Abate. Incorniciato da un paesaggio fra i meglio conservati di quanti ne riservano le campagne mezzadrili toscane, ricco di vigne, oliveti, seminativi, orti e querce, il monumentale edificio, verosimilmente fondato nella sua prima, più umile veste nella seconda metà dell’VIII secolo, si staglia contro i boschi delle colline che ad ovest/nord-ovest gli fanno da sfondo. Fin dall’emanazione del diploma di Ludovico il Pio (813), primo figlio e successore di Carlo Magno, l’abbazia viene riconosciuta proprietaria di un ingente patrimonio fondiario che, oltre ad estendersi nei contermini territori di Castelnuovo e Montalcino, si allungava fino alla Maremma, al Senese, al Fiorentino, al Pistoiese; essa era altresì titolare di numerosi privilegi e giurisdizioni su castelli, monasteri, chiese, ospedali etc. Grazie allo stretto rapporto con il potere imperiale, la potenza abbaziale cresce, così, e si consolida fino a conoscere nel XII secolo il momento più felice della sua vicenda storica (è nel secondo decennio di questo secolo che prende avvio, come meglio vedremo in seguito, l’edificazione della nuova abbazia). A questo punto, però, prende a delinearsi una situazione di segno diverso, in ragione soprattutto delle mire espansionistiche del comune di Siena verso la Val d’Orcia, e particolarmente su Montalcino, castello sul quale Sant’Antimo aveva esercitato fino a quel momento la propria giurisdizione e che, anzi, costituiva la più importante fra le comunità signoreggiate dall’abate. Dopo eventi bellici che segnano con continuità gli anni fra XII e XIII secolo e che vedono, fra l’altro, la parziale distruzione di Montalcino da parte degli eserciti senesi, si giunge il 12 giugno 1212 ad un accordo fra Siena, Sant’Antimo e la comunità ilcinese secondo il quale la prima acquisisce la proprietà di un quarto di Montalcino; da allora in poi, l’avanzata del comune della Balzana sarà inarrestabile, sostenuta dall’infiltrarsi in ogni contesto territoriale della proprietà cittadina. Si giungerà alla fine del secolo con Sant’Antimo toccata, per più aspetti, da una crisi profonda che indurrà il pontefice Niccolò IV ad affidarla (1291) alla guida dell’ordine dei Guglielmiti (in sostituzione dei Benedettini), confidando negli effetti dell’impatto con nuove energie spirituali e fisiche. Quando, agli inizi del Trecento, anche l’abbazia santantimese cadde nel campo d’osservazione del fisco senese, ovvero al momento in cui si passò a redigere la celebre catastazione nota come ‘Tavola delle possessioni’ (1315-1318) - alla quale si è già fatto cenno - i beni abbaziali prossimi al monastero, ancora di una certa consistenza, risultarono ripartiti essenzialmente in due zone: una limitrofa allo stesso (gli orti e le vigne della Val di Starcia) e l’altra sulle riva sinistra dell’Orcia, sfruttata per la cerealicoltura e l’allevamento (con le proprietà del Piano di Massareta a costituirne la componente più rilevante). Fra Tre e Quattrocento una gestione patrimoniale e una guida morale sovente del tutto inadeguate determinarono per Sant’Antimo uno stato di crisi che l’accompagnò fino al 1462, anno in cui Pio II, istituita la diocesi di Pienza-Montalcino (primo vescovo Giovanni Cinughi), di fronte alla miseria in cui versavano l’ abate e i pochi monaci, preferì avocare tutti i beni dell’abbazia alla nuova mensa vescovile; da allora anche il titolo di abate di Sant’Antimo sarebbe stato di pertinenza del vescovo, ciò fino all’incorporazione della diocesi di Montalcino all’arcidiocesi di Siena (1986). Quanto alle vicende più recenti è da segnalare almeno come l’abbazia sia stata restituita al culto e alla liturgia solenni dai Canonici regolari premostratensi, che, approdati a Sant’Antimo per l’iniziativa del vescovo di Siena Mario Ismaele Castellano e del suo ausiliare Alessandro Staccioli, vi sono restati dal 1979 al 2015.


Varie testimonianze architettoniche e decorative fanno pensare che, prima della chiesa che oggi ammiriamo, altra ne sia stata costruita intorno all’anno mille, in larga parte cancellata dall’attuale. La costruzione di quest’ultima, avviata verosimilmente nei primi decenni del XII secolo, risulta quasi in tutto compiuta alla metà del secolo. Progettata, come sembra, avendo presente l’imponente abbazia benedettina di Cluny, essa evidenzia uno stile romanico con influenze cistercensi. Di travertino sono tanto il paramento esterno che quello interno; con il luminoso onice delle cave castelnovesi sono fatte le decorazioni architettoniche. La facciata, semplice, presenta un protiro in forme romaniche, con decorazioni scultoree. Sul fianco sinistro si apre un ‘portaletto’ del secolo IX. “In fondo si innalza il poderoso campanile quadrato, di forme lombarde, aperto da due ordini di monofore, con cella campanaria a bifore (una campana è del 1219)”: sembra essere, secondo alcuni storici, il resto di maggiore consistenza della chiesa più antica. L’abside, semicircolare, si caratterizza soprattutto per la presenza di un deambulatorio a cappelle radiali e si fa notare per la sua eleganza. La parte destra dell’abbazia è scandita da un altro piccolo portale del secolo XI, con architrave a rilievi. Sempre sulla destra dell’edificio si vedono alcuni resti del monastero antico, con la sala capitolare.


L’interno è a tre navate, che dalla facciata all’abside vanno in varia misura restringendosi. Esse sono divise da colonne, con l’inserimento di piloni cruciformi (un pilone ogni tre colonne); belli ed originali i capitelli, attribuiti al Maestro di Cabestany (sec. XII); particolarmente notevole il secondo a destra raffigurante Daniele nella fossa dei leoni. Tanto a destra che a sinistra si aprono, sorretti da arcate a tutto sesto, i matronei, dotati di bifore di varia dimensione. Lungo l’abside sono posizionate cappelle a raggiera. Nella navata destra, bella scultura lignea dipinta di Madonna col Bambino, attribuita ad artista umbro attivo nel sesto-settimo decennio del XIII secolo (conservata in precedenza nella parrocchiale di Castelnuovo dell’Abate). Sulla predella dell’altare maggiore, una lunga iscrizione (carta lapidaria) propone il testo di un’importante donazione fatta all’abbazia dal conte Bernardo degli Ardengheschi (1117). Dietro l’altare, un crocifisso ligneo della prima metà del Duecento; in prossimità dello stesso, sulla destra, una scaletta introduce ad una piccola cripta. Tornati nella chiesa, da segnalare nella parte finale della navata di sinistra una cappelletta che presenta tre absidi. Nella navata destra, invece, una porta che si apre all’altezza dell’altare maggiore dà accesso alla sagrestia, donde una scala a chiocciola consente di salire fino ai matronei di destra; da essi nel XV secolo furono ricavati cinque locali, uno dei quali fornito di un camino, della stessa epoca.
A cura del Professore
Alfio Cortonesi

Nota bibliografica su Castelnuovo dell’Abate e Sant’Antimo
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A. Canestrelli, Storia dell’Abbazia di S. Antimo, in “Bullettino senese di storia patria”, XVIII (1911), pp. 84-132, 187-232 (riproduzione anastatica Siena 1987).
A. Cortonesi, Agricoltura e proprietà fondiaria a Poggio alle Mura e nella bassa Val d’Orcia: la testimonianza del “visitatore” Bartolomeo Gherardini (aa. 1676-1677). Appendice, a cura di A. Lanconelli, Visita Gherardini, aa. 1676-1677: Argiano, Poggio alle Mura, Castelnuovo dell’Abate, Sant’Angelo in Colle, in Poggio alle Mura e la bassa Val d’Orcia nel medioevo e in età moderna, a cura di A. Cortonesi, Poggio alle Mura, Fondazione Banfi, 1996, pp. 59-112
A. Cortonesi, Castelnuovo dell’Abate e la mezzadria delle origini, in Uomini, paesaggi, storie. Studi di storia medievale per Giovanni Cherubini, a cura di D. Balestracci, A. Barlucchi, F. Franceschi, P. Nanni, G. Piccinni, A. Zorzi, 2 voll., Siena, SeB Editori, 2012, pp. 387-398.
A. Cortonesi, A. Lanconelli, Castelnuovo dell’Abate. Una comunità valdorciana e il suo statuto medievale, Arcidosso, Effigi, 2018.
R. Farinelli, A. Giorgi, La “Tavola delle possessioni” come fonte per la storia del territorio: l’esempio di Castelnuovo dell’Abate, in La Val d’Orcia nel medioevo e nei primi secoli dell’età moderna. Atti del Convegno internazionale di studi storici (Pienza, 15-18 settembre 1988), a cura di A. Cortonesi, Roma, Viella, 1990, pp. 213-256.
W. Kurze, Sulla storia dell’abbazia toscana di Sant’Antimo nella valle dello Starcia, in Id., Monasteri e nobiltà nel senese e nella Toscana medievale, Siena 1989, pp. 319-335 (ed. orig. Freiburg, Basel, Wien 1968).
I. Moretti, Il riflesso di Sant’Antimo nell’architettura romanica della Valdorcia, in La Val d’Orcia nel medioevo (cfr. sopra), pp. 299-332. Nuove ricerche su Sant’Antimo, a cura di A. Peroni e G. Tucci, Firenze 2008.
G.A. Pecci, Lo stato di Siena antico, e moderno, vol. I, 1-2. Trascrizione e annotazioni a cura di M. De Gregorio e D. Mazzini, con un’introduzione di D. Balestracci, Siena, Accademia degli Intronati, 2008, pp. 509-607 (redazione definitiva 1767).
